Comune di Moscazzano

Palazzo Griffoni Albergoni

Palazzo Albergoni

Posta su di un pianalto verso l'Adda, in zona paludosa di difficile controllo politico, ai confini tra lo Stato Veneto e il Ducato di Milano, la splendida villa Albergoni di Moscazzano è stata costruita, sulle rovine di un antico castello. La carta Correr (Desegnio di Crema et del Cremasco pubblicato a Venezia tra il 1482 e il 1497) conferma che Moscazzano era un borgo fortificato con case merlate e un'isolata torre di avvistamento (San Donato).
Alla potente famiglia milanese dei Vimercati (insediatasi a Crema con Pinamonte probabilmente nel secolo XIII) e precisamente a Giovanni, il feudo di Moscazzano venne affidato nel 1499.Possiamo quindi ritenere questa la data di inizio della loro presenza nel borgo. In quegli anni probabilmente iniziarono anche a trasformare le rovine del castello in una residenza di campagna. I Vimercati erano una delle più potenti e ricche famiglie cremasche, proprietari di vastissimi fondi nel nostro territorio e divisi in numerosi rami già nel secolo XV. In città abitavano un palazzo nell'attuale via XX Settembre, demolito in seguito per far posto all'edificio della Banca Popolare.
A Moscazzano dovettero investire parecchi capitali subito nella prima metà del secolo XVI, se Ridolfo chiamò il pittore Aurelio Busso (nato attorno al 1500), discepolo di Raffaello e rinomato affrescatore di palazzi a Roma, a Genova e anche a Crema, per decorare la propria casa di Moscazzano. Lo afferma il Benvenuti: "Un altro fregio di puttini [del Busso] conservasi tuttora nella casa, che era de' Vimercati, oggi Stramezzi in Moscazzano." E il Lucchi - citando fonti proprie - scrive: "Nella villa di Moscazzano ha colorito anco a fresco il casion del conte Ridolfo Vimercato con istorie e varie fantasie (Ridolfi e Roma)." Di questa decorazione non rimangono che incerti frammenti di grottesche e due lunette e mezza di una fascia da soffitto nel salone principale.
In quegli anni, grazie al matrimonio di Sermone con Ippolita Sanseverino figlia di un generale del duca Galeazzo Sforza, avvenuto attorno al 1520, i Vimercati davano inizio a un nuovo ramo di famiglia affiancando al proprio anche il cognome del potente casato milanese. La villa di Moscazzano rimase in conto proprio a questi Vimercati-Sanseverino passando, di padre in figlio, nelle mani di Sermone, Marcantonio (1516-1597) e Orazio (che sposò Costanza Armania, militò con lo zio Lodovico nella guerra di Cipro e fece testamento nel 1614).
In seguito - erano gli inizi del '600 - anche il casato Vimercati Sanseverino si divise ulteriormente in altri tre rami con i figli di Orazio: Lodovico III (+1630) diede inizio a quello di Palazzo Pignano, Francesco a quello di Azzano e Pandolfo (morto prima del 1685) a quello di Moscazzano. Quest'ultimo ebbe due mogli: dalla prima, Angela Benvenuti (sposata nel 1615) nacquero Ippolita, Costanza, Carlo, Leonora, Orazio, Barbara e Margherita; dalla seconda, Lucrezia Della Noce, vennero Ippolita, Ottaviano e Ferdinando.
Fra costoro, il catasto veneto del 1685 elenca come proprietari di fondi e di case in Moscazzano: Orazio che risulta possedere una casa stimata lire 210 (trattandosi di quella più quotata fra tutte le altre in possesso della famiglia, possiamo ritenere si trattasse della nostra villa), Ferdinando (ambedue sono indicati figli di fu Pandolfo, il che dice come il padre fosse già morto); e i fratelli Alessandro e Pandolfo che non troviamo nell'albero genealogico del Racchetti. La famiglia era da tempo tra le più in vista della città. Carlo era provveditore di Crema nel 1649, quando si trattò di festeggiare il ducentesimo anniversario del passaggio di Crema sotto la Serenissima. Prima dei solenni festeggiamenti in cattedrale, toccò a lui pronunciare l'orazione "in espressione del giubilo della città per essere già due secoli sotto gl'influssi beati del veneto cielo", davanti al rettore Zaccaria Bernardo.
Orazio, creato colonnello nel 1657, si distinse invece per azioni non troppo onorevoli: "Per un omicidio comandato da lui - scrive il Racchetti - venne nel 1661 condannato a 20 anni in prigione stretta ed oscura. Convien credere che anche l'ucciso, di cui non è detto il nome, fosse di famiglia potente, se venne vendicato con tanto rigore. Nondimeno con gran somma d'oro comperata grazia a Venezia, dopo pochi mesi uscì di carcere."
Gente senza scrupoli dunque questi Vimercati-Sanseverino.A Moscazzano, nel 1654, vennero in lite con i Gambazzocca, loro dirimpettai, per via della proprietà dei numerosi bocchelli d'irrigazione, a quei tempi di vitale importanza per lo sfruttamento dei fondi agricoli. Lo racconta il Canobio: "Seguì in Moscazzano, per occasione d'acqua, rissa tra il conte Vimercati e signori fratelli Gambazzocchi con sbaro di alcune archibugiate. Inteso ciò da Sua Eccellenza, a fine che non nascesse maggior male, tosto trasmise loro un mandato che immediatamente dovessero trasferirsi in città, ove li sequestrò in casa."
Orazio, non ebbe figli. La villa di Moscazzano dovette quindi passare al nipote Pandolfo, figlio di Carlo, che sposò Tadea Griffoni nel 1680. Quindi, di padre in figlio, a Giovanni (che sposò Paola Martinengo, morta il 19.5.1765) e a Ferdinando che portò all'altare Bianca Sanseverino ed ebbe Antonio (morto ragazzo il 22.5.1774), Angela e Tadea.
Angela s'innamorò di Gerolamo Griffoni Sant'Angelo, il quale fece di tutto per averla e dovette "uscire dalla casa paterna per menare in moglie la Sanseverini e sposarla privatamente; ciò che avvenne a' 13 di febbraio 1776." Ebbero tre figli: Angelo, Ernesto e Matteo.
Dal catasto del 1805 risulta che la villa di Moscazzano e le annesse 1258 pertiche di fondi appartengono alle sorelle Angela e Tadea (il padre doveva già essere morto). Nel 1813 avvenne la divisione tra di loro e ad Angela, ormai vedova di Girolamo Griffoni Sant'Angelo, rimase la villa con circa mille pertiche di terra. Nel 1814 risulta che parte della proprietà è trasportata ad Angela e a Prospero Frecavalli, figlio di Tadea, cui vanno successivamente le parti della madre. I passaggi tra i Vimercati Sanseverino e i Frecavalli s'infittiscono. Alla fine risultano "possessori nuovi" della villa Angela e il figlio Angelo. Nel 1823, dopo la presumibile morte della madre, il tutto restò ad Angelo Griffoni Sant'Angelo. La grande villa dei Vimercati Sanseverino passava così definitivamente nelle mani di una nuova famiglia.

I conti Griffoni Sant'Angelo si erano insediati a Crema nel 1459 con un certo Matteo di Sant'Angelo in Vado, personaggio di modeste condizioni che fece fortuna come capitano di ventura al servizio di varie signorie, tra cui gli Sforza e la Serenissima. Blasonato da quest'ultima, scelse di abitare in una città del suo territorio, venne a Crema e acquistò il castello di Gabbiano che avrebbero poi trasformato in villa nel XVII secolo.
A Moscazzano i Griffoni arrivarono - come s'è detto - con Gerolamo, figlio di Paolo (+29.9.1786) e nipote del santo vescovo di Crema Faustino, grazie al matrimonio con Angela Vimercati Sanseverino, figlia dei proprietari della villa. Ma il casato dei Griffoni si estinse subito con i figli Angelo che morì celibe il 31 gennaio 1852 ed Ernesto (da tempo ricoverato in manicomio) che scomparve poco dopo, il 26 novembre 1860. Le notevoli proprietà dei Griffoni (il complesso di Moscazzano, ma anche quello di Castel Gabbiano), restavano a questo punto congelate, come segnala il catasto l'11.6.1852, e affidate dalla Pretura di Crema all'amministrazione di Carlo Donati, in attesa di spartizione fra gli eredi, previa un'accurata perizia ordinata dalla stessa Pretura.
Il dott. Albergoni, figlio dell'attuale proprietaria della villa di Moscazzano Corinna Emanueli, conserva nell'archivio di famiglia il testo originale della perizia riguardante l'odierna sua proprietà, dal titolo: Stato consegnativo dello Stabile di Moscazzano lasciato dal nobile fu conte Angelo S. Angelo Griffoni, redatto, il 28 giugno 1853, dall'ing. Eugenio Iublin e dall'arch. Giovanni Massari.
Nell'archivio della Curia vescovile esiste inoltre la copia autentica dell'Istromento di divisione della fortuna abbandonata dal fu conte Angelo Griffoni S.A. (datata 6 dicembre 1858, ma la spartizione dovette avvenire almeno due anni prima). Dal documento risulta che la Pretura di Crema aggiudicò con sorteggio, in base al testamento del Griffoni stesso, una metà della proprietà (i fondi e la villa di Castel Gabbiano) al conte Alfonso Vimercati Sanseverino; l'altra metà (la villa e i fondi di Moscazzano), in parti uguali, ai minori contessa Ortensia Premoli e al primo figlio maschio nascituro e al conte Alfonso Vimercati Sanseverino di Faustino, l'usufrutto veniva affidato al conte Carlo Premoli (padre di Ortensia) e Faustino Vimercati Sanseverino Fadini di fu Marcantonio.
La villa di Moscazzano passò così per metà a Ortensia che era l'unica figlia di Carlo Premoli il quale aveva sposato, nel 1848, Bianca Vimercati Sanseverino e si era quindi imparentato con i Griffoni (Ortensia era la figlia a cui Carlo aveva dedicato una delle cascine Gandini). L'altra metà al minore Alfonso Vimercati Sanseverino figlio di Faustino. Insomma il tutto ritornava ancora nell'alveo dei Sanseverino.
Ma non durò molto. La proprietà doveva essere di difficile gestione e, pochi anni dopo, il catasto registra, in data 16 febbraio 1861, il suo passaggio (per acquisto?) alle sorelle Rosaglio Ortensia, vedova Terni; Giuseppina, maritata Premoli ed Emilia, maritata Fadini, figlie di fu Orazio.
Trascorrono pochi anni ancora ed ecco un altro cambio di proprietà. Nel 1865, l'acquista Giuseppe Perletti di fu Pietro, ricco imprenditore che in quegli anni allestiva anche la sua casa d'abitazione a San Bartolomeo ai Morti in città. S'imparentò con la famiglia Stramezzi grazie alla sorella Annunciata che sposò Pietro Stramezzi ed ebbe il figlio Zaverio. Quest'ultimo decise di arruolarsi come garibaldino attorno al 1860, scelta che il padre non condivise decidendo di diseredarlo. Lo zio Perletti prese a cuore la sorte del nipote e decise di lasciarli sia la casa di San Bartolomeo che la villa di Moscazzano, a condizione che si sposasse e facesse figli maschi. S'accasò di fatto con Giulia Pesadori ed ebbe Giuseppe, Silla, Adolfo, Paolo e Azzolina (che sposerà Giuseppe Vailati).
Nella stessa data in cui viene registrato il passaggio a Saverio della casa di San Bartolomeo (16.1.1877) troviamo registrato anche il passaggio della villa di Moscazzano. L'ing. Saverio morì nel 1894 e quest'ultima passò ai citati figli come proprietari e alla moglie Giulia Pesadori (di fu Ranuzio) come usufruttuaria. L'8.7.1911 Azzolina cedette la sua parte e solo il 24.6.1911 viene registrata la divisione tra i rimanenti fratelli per cui la villa di Moscazzano restò all'ing. Giuseppe, vivente ancora la madre Giulia che mantenne l'usufrutto.
E arriviamo al 1929 quando troviamo registrato un altro passaggio di proprietà avvenuto presumibilmente nell'anno precedente. L'acquistò la contessa Carolina Bonzi, moglie di Adolfo Stramezzi, fratello minore di Giuseppe: liquidato in precedenza, tornava ora in possesso dell'immobile di Moscazzano nel quale mantenne ancora, ma per pochissimi mesi, la madre Giulia come usufruttuaria (morirà agli inizi del 1929).
La villa di Moscazzano rimase dunque in mano agli Stramezzi complessivamente 84 anni, fino al 1958 (la registrazione di catasto è del 31.12.1961) anno in cui venne acquistata da Pirro Albergoni, che l'intestò alla moglie, la milanese Corinna Emanueli.

La villa

La villa di Moscazzano ha subito lungo i secoli notevoli trasformazioni che possiamo documentare con una serie di fonti che in parte smentiscono le affermazioni della scarsa letteratura al riguardo.
Vediamo innanzitutto quando possiamo collocare la sua fondazione. Il fatto che la villa contenga affreschi di Aurelio Busso costituisce un punto fermo per individuarne la data di costruzione. Come è noto, il celebre pittore cremasco era già attivo a Roma prima del 1520, se meritò un elogio da Raffaello (morto in quell'anno). Dobbiamo supporre, quindi, che sia nato tra gli anni 1490-1500. Nel 1527 fuggì da Roma, assieme ad altri artisti, dopo che i Lanzichenecchi avevano messo a sacco la città. Si rifugiò a Genova, dove collaborò alla decorazione di numerosi palazzi. Frequenti i suoi passaggi a Crema e nel Cremasco, dove affrescò diversi palazzi della città, nonché il fregio (e forse decorazioni a grottesche) della nostra villa, nella prima metà del 1500.
Ciò fa supporre che la casa sia stata costruita almeno qualche tempo prima. I dati in nostro possesso fanno ritenere certo che i Vimercati abbiano fondato la loro dimora di Moscazzano tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo. Toccò poi a Ridolfo commissionare la campagna d'affresco nella prima metà del '500. Risulta quindi errato il dato proposto dal Perogalli che la colloca nel secolo successivo.
Nel XVII secolo, in una mappa posseduta nell'archivio della famiglia Marazzi databile attorno al 1650, la villa viene disegnata come un corpo cubico con coperture a quattro spioventi, senza le due attuali torri, a sud di una corte completamente circondata da edifici e aperta sulla via principale del paese con un sontuoso portale, molto sopraelevato sulla cortina di edifici e terminante a timpano.
Il disegno è certamente approssimativo, ma neanche troppo. Il fatto che le due torri non siano riportate non può essere - a mio avviso - giudicato trascurabile: era un elemento troppo importante. Sono dunque successive?
In una mappa del 1776 (sempre in possesso dei Marazzi) la pianta del complesso appare già modificata: sono stati demoliti tutti gli edifici a ovest della corte, lungo la strada per Montodine, e al corpo della villa è agganciata solo un'ala rustica a est, mentre resta una cortina di edifici di servizio a nord, lungo la strada pubblica. é l'impianto che troveremo anche alla metà del XIX secolo e dobbiamo quindi ritenere che rifletta una notevole trasformazione del complesso. La conferma avviene da una terza mappa di soli tre anni dopo (1779), conservata nell'archivio parrocchiale di Moscazzano, che disegna la villa con le due torri attuali e anche con un portico ad archi sulla facciata sud, che tuttavia non risulta esserci mai stato, a conferma dell'approssimazione del disegno, interessato in realtà a rilevare i bocchelli d'irrigazione.
Comunque possiamo ipotizzare che nella prima metà del XVIII secolo, sempre per opera dei Sanseverino, la villa abbia subito una radicale trasformazione che potrebbe averle dato il carattere austero e castellano che vediamo ancora oggi.
Ma una nuova rivoluzione esterna e soprattutto interna della dimora avvenne ancora successivamente, nella settantina d'anni nei quali i Griffoni Sant'Angelo ne furono in possesso. A documentazione abbiamo una bella veduta incisa da Bassano Finoli in onore del conte Angelo Griffoni (proprietario dal 1823 fino alla morte avvenuta nel 1852) e il citato Stato consegnativo dello Stabile di Moscazzano lasciato dal nobile fu conte Angelo S. Angelo Griffoni, redatto, dopo la morte del conte. Quest'ultimo, firmato il 28 giugno 1853, dall'ing. Eugenio Jublin e dall'arch. Giovanni Massari per conto della Pretura di Crema, aveva lo scopo di rilevare dettagliatamente lo stato (e quindi il valore) dell'intera proprietà del defunto conte (la villa e 534 pertiche di fondi, pari a 701 pertiche cremasche), rimasta congelata, assieme a quella di Castel Gabbiano, e amministrata da Carlo Donati, in vista della divisione tra gli eredi indicati nel testamento.
Tra la descrizione dello Stato consegnativo, assolutamente precisa e dettagliata (descrive persino i materiali e la tipologia dei cardini che sostengono gli infissi) e la veduta del Filoni si rilevano numerose coincidenze, ma anche alcune inspiegabili e notevoli contraddizioni, per cui si può ipotizzare che il disegno sia una sorta di immagine progettuale o ideale, soprattutto per quanto riguarda il giardino.
In particolare, nel 1853, la villa si presentava esternamente (dell'interno parleremo in seguito) nel modo seguente.
Davanti al "palazzo" (così è definita la casa padronale nello Stato consegnativo), verso la via principale di Moscazzano, esisteva un cortile tutto a pascolo, chiuso a nord da un muro di cinta che lo separava dall'aia della casa colonica, formato da un muretto alto 0.65 metri, su cui poggiavano dodici pilastrini che reggevano una cancellata in rovere ad aste, al centro (in asse con l'ingresso della villa) s'apriva l'entrata con un cancello sorretto da due pilastri in cotto sormontati da vasi di pietra. A est il cortile era chiuso dalla citata ala di edifici rustici; a ovest da un muro di cinta coperto di coppi nel quale s'apriva un uscio per comunicare con la strada comunale per Montodine (detta del Malcantone). Il muro di cinta esterno correva su una sorta di spalto come ancora oggi. Nel cortile si contavano 47 robinie domestiche. Dalla descrizione risulta dunque che, in fregio alla via del paese, esisteva ancora il cascinale rustico con la sua corte, che bisognava attraversare per entrare in quella padronale.
Il palazzo si presentava (come si presenta ancora oggi) come un solenne corpo cubico con tetto a quattro spioventi, fornito di torri non inserite nella struttura dell'edificio stesso, ma aggiunte in corrispondenza degli angoli nord-est e sud-ovest. Una collocazione non canonica nella tipologia delle ville che solleva molti dubbi, non dico sulla loro preesistenza, ma addirittura sulla loro contemporaneità alla villa stessa.
L'impianto centrale del palazzo era tuttavia soffocato a oriente dall'ala rustica e di servizio a due piani presente fin nelle mappe del Settecento; e a occidente da un'ala polifunzionale, elevata di un solo piano e aggiunta probabilmente dai Griffoni, che collegava il palazzo al muro di cinta sulla strada per Montodine. Quest'ultima aveva probabilmente lo scopo di creare prospettive scenografiche, soprattutto verso il giardino.
Facevano da cerniera, tra le pareti del palazzo e le citate ali, due "andatoie", cioè due corridoi di passaggio, larghi quanto l'aggetto delle due torri, che servivano da disimpegno tra gli ambienti interni, quelli dei due corpi aggiunti e il giardino.
L'ala di edificio a ovest era divisa orizzontalmente in due settori. Quello verso la corte (quindi a nord) si distendeva, dal corridoio verso il muro di cinta, con due stanze (l'una con due, l'altra con una finestra), un bagno con rispettivo antibagno, infine un portico in cui si apriva un gran portone architravato in rovere, affiancato da due ampie finestre senza serramenti. Il settore meridionale di questo corpo aggiunto era costituito da una grande cedraia a forma di portico, aperta verso il giardino con cinque arconi su pilastri a bugnato (che venivano chiusi con cortine a vetri), collegata mediante un'ampia porta vetrata al salone principale del palazzo. Aveva un pavimento in cotto, un soffitto "plafonato di tela dipinto a riquadro con fogliami", la parete di fondo era "ricoperta di tele con figure a olio"; verso occidente si apriva con un portale ad arco che immetteva "ad un poggio esterno sulla strada che conduce a Montodine ed in un grande arco bugnato, soglia di vivo e parapetto di ferro". Di questo poggio esiste un resto ancora oggi sul muro di cinta che scende lungo la strada per Montodine: si vedono ancora la ringhiera del balconcino e i due pilastri dell'antico arco oggi terminanti con vasi di fiori in pietra. Questa scenografica cedraia è riportata esattamente anche nella stampa del Finoli il quale, in corrispondenza degli arconi pone, sul ciglio dell'antica scarpa del castello, una serie di statue in pietra su alti basamenti a forma di vaso.
Come s'è detto, allo stato del 1853, collegata al palazzo vi era anche una lunga ala di servizio che, per un tratto era in linea con le due facciate settentrionale e meridionale, ma poi piegava a nord e chiudeva la corte nobile sul lato orientale. Lo Stato consegnativo descrive anche quest'ala molto particolareggiatamente.
Vi troviamo il citato corridoio di passaggio, largo quanto l'aggetto della torre a nord, che faceva da cerniera con il palazzo vero e proprio; si apriva nel soffitto con una lanterna finestrata in ogni lato, escluso quello occidentale e con una finestra verso il giardino. Procedendo verso est, sempre in linea con la facciata, esisteva un tinello (con due finestre verso il giardino) poi lo stanzino del credenziere con soffitino plafonato di tela e carta (una finestra verso il giardino) e poi molti altri ambienti di servizio: lavanderie, cucine, dispense, bagni, camerini, scale e due portichetti aperti verso la corte nobile. L'ala terminava a nord con una stalla per cavalli. Al piano superiore esistevano parecchie stanze sempre di servizio, solai e un fienile.
A conclusione possiamo dire che nel 1853 il complesso del palazzo di Moscazzano appariva a forma di L, con il lato nobile disposto da est a ovest e quello di servizio da sud a nord. Il che è tutto confermato dall'antecedente mappa catastale del 1842.
Osservando tuttavia la stampa del Finoli, che doveva precedere di pochi anni la descrizione dello Stato consegnativo, notiamo notevoli diversità: mentre è disegnata con precisione l'ala a ovest del palazzo, manca completamente quella a est. Al suo posto si allunga, verso oriente, fino a scavalcare il fossato artificiale del giardino, un alto doppio colonnato con soffitto a botte su architravi in legno. Manufatto di fantasia (come gran parte del giardino). Gli alzati del palazzo e le due torri presentano, da parte loro, alcune diversità con la descrizione dello Stato consegnativo: quest'ultimo, ad esempio, rileva che nel salone principale di sud-ovest si aprivano due porte sulla terrazza del giardino, mentre nella stampa sono disegnate due finestre. In conclusione possiamo confermare che il disegno del Finoli, nonostante venga dichiarato come "tratto dal vero", sia in realtà una trasfigurazione fantastica (magari progettuale) del palazzo Griffoni.
L'edificio dovette rimanere nelle condizioni tramandateci dallo Stato consegnativo anche con gli eredi di Angelo Griffoni, dati i rapidi passaggi di proprietà e possiamo ritenere che l'ultimo intervento di restauro esterno e interno (per quest'ultimo si vedrà in seguito) sia stato iniziato dall'imprenditore Giuseppe Perletti, quanto l'acquistò nel 1865, e continuato poi dal nipote Saverio Stramezzi successivo proprietario. Interventi che hanno riportato il palazzo al suo stile originario, risanandolo completamente, non senza ulteriori trasformazioni.
All'esterno il Perletti e lo Stramezzi demolirono completamente l'ala a occidente, compresi la cedraia e il corridoio di passaggio, liberando la torre da ogni superfetazione. Demolirono anche l'ala orientale, ma conservarono, o ricostruirono successivamente, un corpo più breve di servizio sempre a est. Dobbiamo ritenere che fossero in parte degradati.
Demolirono infine l'edificio rustico a nord della corte in fregio alla strada pubblica, restaurarono completamente l'interno del palazzo (come si vedrà) e diedero all'esterno quel volto austero che conserva tuttora. Il tutto prima del 1901, come conferma la mappa del catasto di quell'anno.
E oggi la villa di Moscazzano, restaurata dai Perletti e dagli Stramezzi si presenta in tutta la sua austera bellezza subito al di là del muro di cinta e del cancello d'ingresso sulla strada pubblica, al fondo di quelle che un tempo erano le corti rustica e padronale, riunificate in un brano di parco.
Come si diceva, l'originaria struttura cubica dell'edificio è stata di nuovo valorizzata e s'impone chiaramente, nonostante abbia ancora collegata a oriente una bassa ala di servizio a un solo piano.
La facciata a nord è orizzontalmente scompartita in due settori da un marcapiano. Nel piano terreno si apre il bel portalino d'ingresso arcuato a bugnato, preceduto da un solenne protiro con soffitto a vela tutto a bugnato, aperto in tre arconi sorretti da pilastri. Molto bello e antico il portoncino d'ingresso disegnato a cassettoni con rose (compresa la lunetta sopra i battenti). A fianco dell'ingresso e del protiro due finestre per parte.
Nel piano superiore troviamo, al centro, una porta che si apre sulla terrazza ringhierata sovrastante il protiro, affiancata anch'essa da due finestre per parte. Sopra, separata da una cornice, la fascia sottogronda con sette oculi, tre sopra la porta terrazzata e uno sopra ogni finestra. Più in alto ancora corre una lineare cornice di gronda. Sul tetto due camini.
A sinistra della facciata si stacca la torricella, di pianta quadrata ed elevata di poco sopra le coperture. Nelle pareti si aprono diverse feritoie, per terminare alla sommità con una cornice di beccatelli e finte caditoie che sorreggono un ambiente chiuso (con un'apertura a oculo per parete) coperto da tetto a quattro spioventi. Una condizione ben diversa da quella della stampa del Finoli che disegna invece una serie di finestre arcuate sulle pareti delle torricelle e la sommità senza caditoie e beccatelli, ma con un'alta veranda aperta da grandi bifore (una per parete) terminante in una terrazza ringhierata.
La facciata sud del palazzo, quella verso il giardino, presenta lo stesso disegno di quella nord, con una differenza sostanziale: la mancanza del protiro, per cui la porta del piano superiore si accontenta di un balconcino ringhierato. La torre, da parte sua, presenta - nella metà inferiore - due aperture a forma di oculo.
La parete laterale ovest della villa ha due serie di quattro finestre divise da marcapiano. Non le troviamo invece nella parete est alla quale è addossata l'ala di servizio (tanto quanto resta dell'antica ala e senza interesse) che permette di vederne soltanto una al piano superiore.
Complessivamente l'intero palazzo presenta un volto austero e solenne quasi castellano dovuto alle due torrette e alla decorazione a bugnato rustico di tutte le finestre, con la classica forma a ventaglio sopra l'architrave. Una decorazione che ha fatto avvicinare stilisticamente tale villa, in parte alla Vimercati-Sanseverino di Vaianello, ma soprattutto al palazzo Benvenuti di Montodine di cui viene giudicata coeva.
Vale la pena di sottolineare il particolare delle finestre perché presenta qualche difficoltà d'interpretazione. Innanzitutto dobbiamo dire che il bugnato è un ornamento aggiunto alla cortina muraria successivamente. Consiste infatti in un'applique posticcia irrobustita con cocci e malta. Quando è stata applicata? Per rispondere con certezza, sarebbero necessarie indagini più approfondite. Mi limito, comunque, a portare alcuni dati: la stampa del Finoli - per quanto possa essere attendibile - presenta le finestre con un bugnato di tipo diverso (manca il ventaglio sull'architrave); le finestre della parete ovest, inoltre, sono certamente di costruzione ottocentesca, in quanto tale parete era stata praticamente sventrata, al piano terra, dai Griffoni per far posto a verande che mettevano in comunicazione i saloni con il corridoio di passaggio un tempo qui addossato; infine nel citato Stato Consegnativo, si afferma che "nelle spalle delle finestre, smozzate nella parte interna, hanno l'incassatura degli oscuri." Ora, attualmente, la decorazione a bugnato copre anche le spalle delle finestre stesse e non si vede incassatura di sorta. Il tutto potrebbe far avanzare l'ipotesi che la decorazione castellana, ritenuta secentesca, in realtà sia molto più tarda, addirittura ottocentesca.

Gli interni

E vediamo brevemente gli interni del palazzo. Attualmente li troviamo riportati all'antica forma cinque-secentesca, dopo che i Griffoni li avevano completamente stravolti.
La pianta dell'edificio è assolutamente semplice, caratterizzata da un lungo bocchirale passante che mette in comunicazione gli ingressi di facciata sul quale si aprono, a ovest due saloni, a est altre due sale con lo scalone nel mezzo. Una disposizione che potrebbe essere avvicinata a quelle palladiane. In realtà qui manca un elemento fondamentale dell'architettura del Palladio: il salone centrale passante. Vi troviamo invece un semplice bocchirale (cioè un lungo corridoio). Possiamo anzi dire che questa di Moscazzano è l'unica villa cremasca che presenta la soluzione del bocchirale in tutta la sua dignità.
Entrando dal portalino centrale, sotto il protiro, ci si trova subito dunque nell'austero bocchirale con volta a botte e cornice all'imposta. Il pavimento è in mescola di marmo, del tempo del Perletti. Sul bocchirale si aprono tre porte per parte a distanze regolari con spalle e architravi in pietra serena, di stile antico, ma anch'esse della fine Ottocento.
Con la prima a destra si passa in un salottino (nel 1853 "sala da biliardo" secondo quanto scrive lo Stato consegnativo) con volta a vele affrescate a grottesche, due finestre a ovest e due a nord. Tra le ultime un bel camino.
Le due successive porte a ovest immettono nel salone principale della villa definito dallo Stato consegnativo "sala di conversazione". é in questo bell'ambiente che vediamo un soffitto a vela con relativi pennacchi e lunette nelle quali si trovava un tempo il ciclo ad affresco del Busso. Oggi ne restano integre soltanto due scene: una nella prima lunetta a nord e l'altra nell'ultima a sud, nonchè il brandello di una terza. Il resto del soffitto è stato decorato nell'Ottocento.
Molto bello il salone che si apre con due finestre a oriente e due a sud (quest'ultime sono indicate dallo Stato consegnativo come porte). Tra quest'ultime un grandioso camino antico architravato "alla Franchin in brida di beola e contorno di marmo bianco macchiato." Sull'architrave sorretta da mensole a zampa di leone, troviamo scritto: Diletto consumandomi.
Dalla sala si passa, con una porticina ad angolo, nello stretto vano della torre sud.
Tolta la scala che vi saliva (che appare invece in quella a nord, con vano a volta), gli Stramezzi l'hanno rivestita in legno, trasformandola in un locale bar...
Tornando al bocchirale, nel primo vano a sinistra dell'ingresso troviamo oggi la biblioteca di casa (nel 1853 una "sala da giuoco?). Ha un bel soffitto a vele senza nessuna decorazione. A nord si apre con due finestre nel mezzo delle quali troviamo ancora un camino architravato su mensole d'appoggio.
Mediante la seconda porta di sinistra dei bocchirale si accede allo scalone, con la terza si passa nell'attuale sala da gioco (nel 1853 "sala da pranzo") con un soffitto a ombrello completamente dipinto a grottesche e un gigantesco camino sulla parte nord, architravato su mensole a conchiglia con terminazione a zampa. E' stato allestito dagli Stramezzi su un alto piedestallo. Sulle pareti orientale e occidentale troviamo paesaggi ottocenteschi nonché una ninfa.
Tutto questo piano terreno era stato completamente stravolto dai Griffoni Sant'Angelo che avevano abbattuto i muri del bocchirale e le pareti divisorie delle varie sale, sostenendo i pesi della parte superiore con architravi su colonnette e pilastri (ma con grave rischio per la statica dell'edificio) e allestendo grandi invetriate che realizzavano una sorta di luminoso open space nell'intero piano terra. Si erano spinti a sventrare persino il muro perimetrale a occidente per farlo comunicare (sempre mediante invetriate) con il corridoio di passaggio.
Una soluzione che lo Jublin e il Massari criticano aspramente nel loro STATO CONSEGNATIVO, suggerendo un ripristino dell'antica situazione, realizzato puntualmente dagli Stramezzi: "Il palazzo descritto - scrivono era in origine costrutto diversamente di quello che trovasi essere al presente, giacché da quanto viene riferito e da ciò che apparisce anche dalla sola ispezione, le divisioni inteme delle sale terrene, ora formate di vetriere in larghe aperture fra colonne, pilastri e spalline, doveva essere di muro pieno e grosso corrispondentemente a quelli sovrapposti e con sole aperture d'usci di comunicazione fra i locali medesimi'.
La riduzione praticata è senza dubbio contro ogni legge di solidità perché i muri principali della fabbrica, come sono i muri di levante e di sera e gli attraversanti interni da mezzodì a tramontana tutti della grossezza dai metri 0.92 ai 0.60, nonché quelli pure interni da sera a mattina della grossezza di metri 0.30, insomma pressoché tutto l'edificio dei piani superiori con le volte anche in cotto è posto sopra colonne, pilastri e spalline di minore grossezza di essi muri e soverchiamente distanti fra loro ( .. ).
L'insufficienza di tali sostegni dettava di attraversare e legare come si è praticato in vari sensi, mediante tiranti di ferro (..), il fabbricato nei piani superiori, questo ripiego però non soddisfa al bisogno perché se vale a impedire in parte gli sfiancamenti, non serve ad eliminare la forza imponente di pressione dei muri, volte e impalcature soprastanti, ed infatti la fabbrica presenta sensibilissime ed allarmanti screpolature in ogni verso. (... ) " Ghi estensori del rilievo a questo punto "suggeriscono qual rimedio ad arrestare la progrediente rovina, la ricostruzione dei muri di divisione al piano terreno giusta l'originaria costruzione." Ciò che appunto fecero gli Stramezzi.
Per concludere la visita, saliamo al primo piano lungo lo scalone a due rampe parallele, con gradini in beola. Nel vano troviamo lacerti di affreschi a grottesche (del Busso o posteriori?). Anticamente tale vano era tutto pompeiano (era così anche l'intera villa?). Il soffitto è dipinto a cassettoni.
Il primo piano della villa presenta lo stesso impianto di quello sottostante, con il bocchirale che mette in comunicazione le due porte balconate e varie sale che vi si affacciano. Tutti i pavimenti sono in parquet, i soffitti a cassettoni.



Testo tratto da ("Villa Albergoni", Nuovo Torrazzo, di Giorgio Zucchelli )


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